Come viene raccontato il rapporto tra identità e moda nella letteratura contemporanea ?
Abiti e accessori contribuiscono a definire l’identità. Comunicano in modo immediato chi siamo.
Investiamo del tempo per conoscerci: riflettiamo su noi stessi, ci riconosciamo attraverso categorie, ci attribuiamo etichette, ci identifichiamo con gruppi sociali e anche con luoghi e ambienti. Quando ci confrontiamo con i diversi ruoli sociali ricoperti e con gli aspetti unici del sé, emerge l’identità personale; quando ci riferiamo ai gruppi sociali di appartenenza o desiderati, ad emergere è l’ identità sociale; mentre quando sono prioritari gli ambienti frequentati è l’identità di luogo che prevale . La moda ci accompagna in tutte queste forme di identità e ci aiuta ad esprimerle con abiti, accessori, modelli, colori
Nella letteratura contemporanea si parla anche di identità comunicata attraverso la moda.
Dagli abiti che esprimono l’appartenenza ad un gruppo e l’identificazione con i suoi valori, a quelli usati per sembrare uguali agli altri e farsi accettare. Dalla divisa usata per esprimere una identità diversa da quella reale, all’abito che fa sentire più adulti e seducenti o più giovani e allegri indipendentemente dall’età anagrafica, fino agli accessori degli anni settanta che rassicurano e consolano come oggetti transizionali. Dagli abiti che camuffano la sessualità, a quelli che rappresentano il cambiamento o che comunicano i propri pensieri anche da bambini. Tanti modi per descrivere con le parole e con le storie il multiforme rapporto tra moda e identità nella letteratura.
“Dopo cena gli uomini si riunivano attorno al camino con i liquori a discutere di politica. (…) Le signore, invece, si raccoglievano dalla parte opposta della casa, con i bicchierini di cristallo colmi di liquore alla menta, a sbirciare i vestiti delle altre. A questo genere di serate partecipavano due tipi di donne, assolutamente diverse fra loro: le professioniste e le mogli. Le professioniste erano l’epitome della nuova donna turca, idealizzata, glorificata e portata a esempio dall’élite riformista; erano giuriste, insegnanti, giudici, dirigenti d’azienda, studiose, accademiche.
Contrariamente alle loro madri, non dovevano più trascorrere l’esistenza confinate in casa ma avevano la possibilità di farsi strada nella vita sociale, economica e culturale del Paese, a patto che lungo il percorso si liberassero completamente della loro femminilità. Di solito indossavano tailleur due pezzi marroni, grigi o neri, i colori della castità, della modestia e del rigore. Portavano i capelli corti, niente trucco, niente accessori: sembravano asessuate. Ogni volta che le mogli ridacchiavano in quell’odiosa maniera femminile, le professioniste stringevano più forte le borsette di pelle, come se contenessero segreti di Stato da proteggere a ogni costo”. Shafak, La bastarda di Istanbul, Milano Rizzoli, 2007, pp. 158-159).
“Le mogli, al contrario, si presentavano in abiti di seta bianchi, rosa confetto e celeste pastello, le sfumature della femminilità, dell’innocenza e della vulnerabilità. Non amavano le professioniste, considerate più «camerate» che donne; a loro volta, le professioniste non avevano simpatia per le mogli, considerate più «concubine» che donne.
Alla fine, sembrava che le une e le altre si giudicassero reciprocamente non abbastanza «donne». Ogni volta che la tensione fra camerate e concubine si ‘intensificava, Petite-Ma, che non si identificava con nessuno dei due gruppi, segnalava discretamente alla domestica di servire il liquore alla menta nei bicchierini di cri!tallo e i dolcetti di mandorla sui vassoi d’argento. Quell’abbinamento, aveva scoperto, era l’unica cosa capace di placare i nervi di ogni invitata, indipendentemente dalla fazione nella quale militava” (Elif Shafak, La bastarda di Istanbul, Milano Rizzoli, 2007, pp. 158-159).
Nel Messico post rivoluzionario degli anni 30, Catalina gioca la carta dell’abbigliamento, per aiutare il marito, il generale Andreas Ascencio, che si appresta a tenere un comizio a Coetzatlan, in una piazza quasi vuota. Al loro arrivo tutti li avevano guardati con diffidenza e Catalina cerca di rimediare. “Organizzai che tutte noi ci vestissimo come loro. Dona Remigia, la moglie del delegato locale del partito, ci aiutò a trovare gli indumenti e a vestirci.
Le gonne erano sue e delle sue sorelle, come pure i fili di lana per i capelli. Persino per Veranda mi diedero un huipil bianco. Tornammo nella piazza dove Andreas stava per iniziare un discorso per i pochi curiosi che c’erano andati. Camminavamo a fatica, era difficile tenere dritta la testa piena di fili di lana, avevamo un’aria strana, ma alla gente piacemmo. Cominciarono a seguirci quando attraversammo il mercato. Quando arrivammo in piazza avevamo portato al generale Ascencio, tre volte più pubblico di quanto erano riusciti a trovare i suoi banditori” (Angela Mastretta, Strappami la vita, Milano, Feltrinelli, 1999, p. 44).
“Quando Anton Immers comprò per 10 chili di salsicce l’uniforme di un ufficiale –Kurt Heidenreich – chiese a Herr Abramowitz di fotografarlo in divisa. (…) Tenendo la schiena il più dritta possibile, il macellaio, che si era sentito disonorato da quando, avendo cercato di arruolarsi, era stato scartato, mantenne lo sguardo fisso oltre la macchina fotografica, con una espressione di trionfo, come se potesse scorgere campi di battaglia troppo lontani perché chiunque altro li vedesse. (…)
Herr Immers incorniciò l’ingrandimento della fotografia, e ogni volta che la guardava nel suo negozio, dove era appesa (…) poteva immaginare di aver realmente combattuto in guerra, non come soldato semplice naturalmente, ma come ufficiale pluridecorato. Col passare degli anni finì col credere a quella fantasia, e sarebbe stato imprudente per sua moglie e per i suoi clienti ricordargli il contrario. Alla fine tutto il villaggio finse insieme al macellaio, persino il tassidermista che gli aveva venduto l’uniforme, e alla generazione successiva quella illusione fu venduta come fatto storico.” ( Ursula Hegi, Come pietre nel fiume, Milano, Feltrinelli 2000, p. 29)
“Dove vai con quel vestito? Anch’io mi guardai. Mi ero messa un abito di mia sorella di cotone arancione, a sottoveste e con gli specchietti applicati alla scollatura. (…) Non vai proprio da nessuna parte – sentenziò con un tono secco, come se avessi fatto qualcosa di male – toglitelo! Non mi hai sentita? L’avevo sentita ma non volevo ascoltarla. Mi ero già guardata a lungo nello specchio prima di uscire dalla mia stanza quella mattina, mi ero sinceramente stupita di vedermi così, come se non fossi io ma la foto di un catalogo, la modella di una pubblicità, la copertina di una rivista illustrata con una ragazza che non poteva ancora credere di essere quella che stava vedendo con i propri occhi.
Non era la prima volta che lo facevo, mi era sempre piaciuto provarmi la roba di mia madre, mi stava meglio della mia, ma quel vestito arancione era un’altra cosa, e non solo perché quando lo indossavo sapeva impadronirsi del mio corpo, per trasformarlo in qualcosa di diverso, nel corpo di una donna più grande, molto più attraente, più seducente di me, ma anche perché oltretutto era di Maria, lei se lo metteva e mamma glielo permetteva, e questo lo rendeva ai miei occhi una specie di arma legale” (Almundena Grandes, Il ragazzo che apriva la fila, Parma, Guanda,2007, pp. 169-170).
Beatrice parla con la nuova amica Franca, di come vestiva da giovane Helene, una ottantenne che predilige indossare abiti romantici e recitare la parte di una dolce e amabile ragazzina. “Il vestito che Helene indossava allora era esattamente come i suoi vestiti di oggi: romantico, elaborato, il vestito di una ragazza giovanissima. Non si è mai discostata da quello stile, come se fosse rimasta bloccata ad una certa fase della vita, senza mai andare avanti”.
Per andare a cena con un amico ha scelto oggi “un vestito estivo bianco, con le maniche a sbuffo, che era troppo giovanile per lei e la faceva apparire piuttosto grottesca, ma al quale per motivi incomprensibili, era molto attaccata. -Con questo vestito mi sento sempre così giovane e allegra!- Peccato che sia solo una sensazione, pensò Beatrice, perché hai un aspetto davvero decrepito. (…)
E’ convinta che la vita le sia passata accanto sfiorandola appena, pensa di essersi lasciata sfuggire tutto ciò che è importante nella vita. Vorrebbe riavere la sua gioventù, e dato che questo naturalmente è impossibile, vuole procurarsi almeno l’illusione della gioventù. Ha visto quell’incredibile vestito da fanciulla in fiore che ha scelto per la serata, no?” (Charlotte Link, La donna delle rose, Milano, Corbaccio,2003, pp. 97- 177).
“Metà anni novanta. Eccoci tutte e quattro, un giorno, a colazione. Arrivammo insieme e non potemmo fare a meno di parlare di come in quegli anni la moda fosse poco definita, un insieme di stili, del va un po’ tutto quello che ti piace. Infatti il nostro abbigliamento era davvero eterogeneo, un’accozzaglia di tendenze. Kate, in abitino corto, un disinvolto accostamento di colori sgargianti e zeppe alte; Jane, un vestitino stile baby doll, bianco a balze, con un micro giubbottino di jeans, scarpe bianche e basse; Annie, maglione a righe, lungo, un po’informe, scollatissimo e stivaletto New Rock, gotico, con il tacco; io, minigonna nera, elasticizzata, maglia lunga a fiori e scarpe con il tacco.
«Annie, dai, vieni qua, accanto a me, guarda, la Maddalena e la santa…» Jane le si mise accanto ridendo.
«Guarda che mica è poi così pudico il tuo abbigliamento,» le feci notare. «È ammiccante e decisamente provocante, non farti ingannare dal bianco virgineo.» «Questa moda è liberatoria. Guardateci, ognuna di noi ha uno stile diverso, e domani se ci va, cambiamo ancora.» Kate accarezzò il tessuto lucido dell’abito. «Sinceramente,» dissi io. «A me sembra che manchi un po’ di personalità. Pensate alla moda degli anni settanta. Colorata, vivace, dirompente, con un suo carattere deciso, una connotazione chiara.» Ci lanciammo in un’appassionata dissertazione sulla storia della moda a partire dagli anni cinquanta, la classe innata di Audrey Hepburn, l’eleganza aristocratica di Grace Kelly, la morbidezza sexy di Marilyn Monroe, viaggiammo negli anni sessanta con la minigonna di Mary Quant, le linee geometriche e poi, lì arrivammo e lì ci fermammo: gli anni settanta.
«Ragazze, l’esplosione dei colori e dei disegni, fiori, cerchi, linee, gli zoccoli e le punte squadrate, i tacchi cubici e poi, la mia passione: le collane bijoux. Lunghe, con fiori, figure geometriche, perline colorate, in metallo, legno, plastica. Come quelle che comprai a Roma, nei primi anni settanta. (…) Lo sapete, fin da ragazzina lo shopping era uno dei miei sport preferiti… Scelsi una serie di cose e conservo ancora una camicia di cotone bianco, leggerissima e stropicciata, l’elastico in vita, maniche lunghe e larghe e poi, tre collane. Un girocollo di stoffa colorata con tante perline di legno di forme diverse. Le altre due sono lunghe, una in metallo con un medaglione dorato e radici di rubino, l’altra, in argento, con tanti piccoli turchesi montati in fondo a catenelle tintinnanti, la mia preferita.»
«Ah! La collana che a volte indossi per le inaugurazioni delle mostre? Ora capisco… Certo che con gli anni settanta tu non conosci freni. Si sente che ti piacciono particolarmente. Potresti parlarne per ore… Bè, comunque anch’io sono legata a momenti, oggetti che me li ricordano. Per superare certi periodi particolari, quando ho bisogno di sentire vivi ricordi e legami, speranze, magari quando sono in giro a fotografare la guerra, bimbi con gli arti strappati dalle mine che mi sorridono distesi sui letti d’ospedale… Ecco, per superare quei momenti, per riconciliarmi con il mondo, metto quell’anello di rame e lapislazzuli, anche lui arriva direttamente dagli anni settanta. Mi aiuta a ritrovare l’allegria.» Jane era da poco tornata da zone di guerra, si portava dentro il sangue, il puzzo, e gli sguardi spezzati.
«E voi? Qual è la vostra copertina di Linus? Annie, qualcosa mi dice che spesso la porti con te…» con tono leggero, sorrise e ammiccò in direzione della borsa. «La mia postina… è vero, siamo inseparabili. Custodiva il mio diario, letteralmente, era la mia cassaforte portatile e mi accompagna ancora, ragazze, ogni giorno mi porto dietro tutti i sospiri adolescenziali e il ricordo dei segreti scritti in quell’agendina rosa e argentata chiusa con il lucchetto.» «Io, a volte, seguo le sfilate con quel giacchettino corto e stretto, in seta rosa fucsia, con i bottoni grandi e squadrati, era di mia madre.»
Un velo di malinconia adombrò lo sguardo di Kate: «Lei m’incoraggiava a coltivare la passione per la moda. Sì, è vero, gli anni settanta ce li portiamo dentro. Sarà che ci ricordano l’adolescenza, sarà che hanno colorato la vita, sarà che… Boh… Li amiamo.» “ (Nicoletta Bernardini, Una vita passata a dividersi tra Richard Gere e Dermot Mulroney. E sono pure gelosi…, Brescia, EdIkiT, 2014 pp. 81-83)
“Il colore proprio degli abiti delle madri è il nero, o al massimo il grigio o il marrone. I loro abiti sono informi, giacché nessuno, a cominciare dalle sarte delle madri, va a pensare che una madre abbia un corpo di donna. I loro anni sono un mistero senza importanza, che, tanto, la loro età è la vecchiezza. Tale informe vecchiezza ha occhi santi che piangono non per sé ma per i figli.” (Elsa Morante, Lo scialle andaluso, Torino, Einaudi 2015, p. 180)
“C’era qualcosa di poco dignitoso negli indumenti che mio padre indossava quella sera. Quella camiciola bianca, o casacca, o come diavolo si chiamava. Per quanto riuscivo a ricordarmi si era sempre vestito in modo semplice, corretto, piuttosto tradizionale. Il suo guardaroba era composto di camicie, abiti, giacche, molte di tweed, pantaloni in terilene, velluto, cotone, maglioni di angora o lana. Più simile a un insegnante di vecchio stampo che uno in camiciola con il colletto alla coreana del nuovo tipo, ma non all’antica, la differenza non consisteva in quello.
La differenza era tra la morbidezza da un lato e durezza e rigidità dall’altro, tra ciò che eliminava le distanze e ciò che cercava di mantenerle. Era una questione di valori. Quando adesso si presentava con quelle camiciole rustiche cucite a mano con tanto di ricami o con le camicie ornate di piegoline, come gli avevo visto indosso quell’estate, o calzava scarpe di pelle informi che probabilmente soltanto un Sami avrebbe avuto il piacere di avere ai piedi e trovare comode, sorgeva un enorme contrasto tra ciò che lui era, quello che io conoscevo bene e che sapevo era lui, e ciò che voleva mostrare di essere”. (Karl Ove Knausgard, La morte del padre, Milano, Feltrinelli, 2014, pp. 209 – 210)
Carl Ove decide di comunicare la sua sofferenza con gli abiti. Soffre perché Anne Lisbett, una bambina per la quale ha una cotta, gli ha preferito un altro bambino, e lo ignora.
“Andai in bagno e chiusi la porta a chiave, rovistai nel cesto della biancheria sporca dove trovai i pantaloni di velluto marrone, quelli brutti, che erano completamente neri di sporco sulle ginocchia. Me li infilai, mi precipitai in camera e mi misi a cercare quell’orrendo maglione giallo, che avevo, lo indossai, scesi le scale inosservato e andai nel locale della caldaia dove c’erano gli stivali, le calzature più brutte che avevo, li portai nell’ingresso e me li infilai. Rimaneva soltanto la giacca.
Presi quella grigia e leggera che mi avevano comprato in primavera, l’anno prima, adesso era diventata un po’ troppo piccola, e piuttosto sporca, oltretutto la cerniera era rotta, così dovevo portarla aperta. Meglio, così si vedeva sotto il maglione giallo. Conciato in quel modo , mi diressi verso la zona dove abitava Anne Lisbet. (…) e se avessi incontrato Anne Lisbet, che era la meta di quella escursione, volevo che lei vedesse che cosa aveva fatto. Quegli abiti orrendi e sporchi che indossavo, la testa china, tutto affinché lo capisse. (..) avrebbe dovuto incontrarmi per caso e rendersi conto di quanto soffrivo per come si era comportata”. (Karl Ove Knausgard, L’isola dell’infanzia, Milano, Feltrinelli, 2015, pp. 234 – 235)
Karl Ove inizia a giocare a calcio “La mamma mi comprò una tuta quando iniziai. Era la mia prima e io nutrivo grandi aspettative, me ne immaginavo una blu, luccicante e dell’Adidas come quella di Yngve, o ancora meglio della Puma, o almeno della Hummel o dell’Admiral. Ma quando me la mostrò, non era di marca. Era marrone con le strisce bianche e anche se secondo me quel colore era brutto, non era quella lo cosa peggiore.
Il peggio era che la stoffa non era lucida, ma opaca, quasi ruvida, che non cadeva morbida sul corpo, ma ne seguiva le forme ed era così aderente che il mio sedere era ancora più appariscente del solito. Quando mi infilavo quella tuta era l’unica cosa a cui riuscivo a pensare. Persino quando correvo in campo e cominciava l’allenamento, quello era il mio solo pensiero (..) ho una tuta marrone e brutta, pensavo. Sembro un deficiente, pensavo. Deficiente, deficiente, deficiente”. (Karl Ove Knausgard, La morte del padre, Milano, Feltrinelli, 2014, p. 250)
“Ero molto attratta da questi due colori – non saprei dire per quale motivo. Per me i sogni erano verdi e blu. Presi delle vecchie tende e mi feci un lungo vestito in quei due colori, i colori dei miei sogni”. (p. 225 ebook)
“Mia madre non mi prendeva mai i vestiti che avevano le altre ragazze. Per esempio ci fu un periodo in cui andavano di moda le sottogonne. Mi sarei svenata per averne una. Ovviamente mia madre me la negò. E non perché i miei genitori fossero poveri. Di soldi ne avevano. In quanto partigiani e comunisti, ne avevano più di chiunque altro: erano la “borghesia rossa”. Così per fingere di avere una sottogonna mi infilavo sei o sette gonne una sopra l’altra. Ma l’effetto non era mai quello giusto: si vedevano i vari strati, oppure una delle gonne cadeva” (p. 354 ebook).
”E poi c’erano le scarpe ortopediche. Avendo i piedi piatti, dovevo indossare calzature correttive speciali – e anche queste non erano calzature normali, ma orribili prodotti socialisti, di spessa pelle gialla, che arrivavano fino alle caviglie. E non bastava che fossero brutte e pesanti: mia madre andò dal calzolaio e gli fece applicare due pezzi di metallo alle suole – come gli zoccoli di un cavallo – per evitare che si consumassero troppo in fretta. Così quando camminavo facevo clop clop. Mi sentivano ovunque con quelle scarpe. Avevo paura anche solo a camminare per strada. Se c’era qualcuno alle mie spalle mi fermavo in un androne per farlo passare, tanto mi vergognavo” (p.359 ebook Marina Abramović, Attraversare i muri. Un’autobiografia, Milano Bompiani, 2018 ).
“Ancora adesso ricordo con precisione molte cose di lei (la nonna). Dopo che ebbe compiuto trent’anni, cominciò a mettere da parte i vestiti con cui voleva essere seppellita. Ogni dieci anni, con il cambiare delle mode, cambiavano anche i vestiti funebri. All’inizio era un completo tutto beige. Poi scoprì i pois. In seguito passò al gessato blu, e così via. Arrivò all’età di centotré anni” (p.449 ebook).
“Non mi tirai indietro di fronte al miglioramento fisico, per niente. E con i bei vestiti incominciò una nuova fase della mia vita. Andai nel negozio di Yamamoto e comprai un completo incredibile: pantaloni neri, giacca asimmetrica, camicia bianca con una sola punta del colletto visibile. Lo possiedo ancora e lo posso mettere in qualunque occasione: è un classico. Quel vestito fu una rivelazione. Era comodo quanto elegante: mi ci sentivo proprio a mio agio. Incredula, presi atto di quanto mi sentissi diversa anche solo a camminare per strada. Senza gli abiti orrendi che avevo sempre indossato, non mi sentivo più impacciata. Mi sentivo bella. (…) I nuovi vestiti mi facevano sentire meglio con me stessa” (p 2843 ebook).
Marina Abramović, Attraversare i muri. Un’autobiografia, Milano Bompiani, 2018
Quante risate, quanto cibo, politica e sigari, scarpe e vestiti, ma più di ogni altra cosa, borsette firmate: le donne le sfoggiavano come trofei di remote battaglie lontane, e va a sapere quali erano originali e quali fasulle. Le signore della media e alta borghesia di Istanbul, per non farsi beccare nell’atto di comprare merci contraffatte, anziché frequentare i negozi di dubbia onestà del Gran Bazar e dintorni, invitavano direttamente i commercianti a casa propria. Furgoni pieni di Chanel, Louis Vuitton e Bottega Veneta, con i vetri oscurati, e le targhe illeggibili per il fango (sebbene il resto del veicolo fosse immacolato), sfrecciavano per i quartieri più facoltosi e venivano ammessi nei garage privati delle ville passando per i cancelli sul retro, manco fossero dentro un film di spionaggio. Si pagava in contanti, niente scontrini, niente ulteriori domande. Alla successiva occasione mondana le stesse signore svolgevano vicendevoli e furtive indagini sulle rispettive borsette, non solo per identificarne le griffe, ma anche per giudicarne l’autenticità – o la qualità della copia. Era una gran fatica. Una fatica per gli occhi.
Le signore scrutavano. Esaminavano, vagliavano, cercavano, davano la caccia ai difetti delle altre donne, quelli palesi e quelli dissimulati. Manicure da rifare, qualche chiletto messo su di recente, pancetta di troppo, labbra al botulino, vene varicose, cellulite ancora visibile malgrado la liposuzione, ricrescite bisognose di tinta, un foruncolo o una ruga nascosti dietro strati di cipria… Non c’è nulla che quegli sguardi penetranti non riuscissero a individuare. Per quanto spensierate fossero prima di arrivare al ricevimento, troppe invitate diventavano, di volta in volta, vittime e carnefici insieme. (pp.17-18)
Elif Shafak, Tre Figlie di Eva, Milano, Rizzoli, 2016
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Psicologa, iscritta all'Ordine degli Psicologi della Toscana, dal 1992 si occupa di psicologia della moda. È autrice di diversi libri sulla psicologia della moda. È coordinatrice didattica del Master on line in Psicologia della moda e dell'immagine di ESR Italia.È stata professore a contratto di Psicologia Sociale e Teoria e tecniche del colloquio psicologico alla Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Firenze, e di Psicologia sociale della moda e di Psicologia dei consumi di moda al Polimoda.
Ciao, sono Paola Pizza, psicologa della moda.
Nel lavoro ho unito due grandi passioni: la psicologia e la moda.
Iniziamo insieme un viaggio tra i significati profondi della moda.
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