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Le scarpe nella letteratura

  • 11 Gennaio 2015
  • By Paola Pizza
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Le scarpe nella letteratura

Scarpe che rendono felici, che contribuiscono a determinare l’identità, che fanno sentire unici e meritano pazzie. Oppure scarpe che fanno soffrire. Ecco come vengono raccontate le scarpe nella letteratura contemporanea.

Scarpe azzurre e felicità

SCARPE AZZURRE PER ESSERE FELICI

La signorina Makutsi è l’efficiente e occhialuta assistente della signora Precious Ramotswe, fondatrice della Ladies’ Detective Agency n. 1, donna rassicurante ed affidabile e inguaribilmente soprappeso. Dopo una giornata intensa di lavoro decidono di prendersi una pausa durante la quale emergono le loro idee contrastanti sulle scarpe. “La signora Ramotswe guardò la vetrina, c’erano dei saldi in corso con grossi ribassi, almeno a quanto proclamavano le scritte (…) ma non erano le scarpe in saldo che avevano bloccato la signorina Makutsi, erano gli articoli a prezzo pieno, ben disposti su uno scaffale, ed etichettati come modelli esclusivi, indossati a Londra e a New York.

“Vede quelle scarpe laggiù? – disse la signorina Makutsi indicando la vetrina- Vede quel paio azzurro?” Lo sguardo della. signora Ramotswe seguì la direzione del dito della signorina Makutsi. Li, separate dagli altri modelli esclusivi, ma pur sempre nella categoria delle esclusive, c’era un paio di eleganti scarpe azzurre, con sottili tacchi alti, e molto appuntite, come il muso di un aereo supersonico. Da dove erano loro era difficile vedere l’interno, ma mettendosi in punta di piedi e allungando il collo la signorina Makutsi fu in grado di riferirne il colore. “Fodera rossa – disse, emozionata- sono foderate di rosso, signora Ramotswe.”

SCARPE AZZURRE PER ESSERE FELICI (continua…)

La signora Ramotswe fissò le scarpe. (…) Guardò la signorina Makutsi, che le fissava in uno stato di semirapimento. Sapeva che la signorina Makutsi nutriva un particolare interesse per le scarpe, ed era stata testimone del grande piacere che aveva tratto dalle sue nuove scarpe verdi con la fodera azzurro cielo. Aveva avuto dei dubbi anche sulla comodità di quelle particolari scarpe, ma in confronto al paio in vetrina, quelle verdi le sembravano il massimo della praticità. Fece un gran sospiro. (…) “Sono molto carine” disse cauta la signora Ramotswe. ”Sono di un bellissimo colore, questo è sicuro, e…” “E la punta!” la interruppe la signorina Makutsi “vede come sono a punta? Guardi”. E si lasciò scappare un fischio di ammirazione. “Ma nessuno è fatto così” obiettò l’altra. “Non conosco nessuno che abbia i piedi a punta. Se lei avesse i piedi così a punta, avrebbe un dito soltanto.”

Si bloccò, non sapendo bene come la signorina Makutsi avrebbe preso questi commenti; era difficile dirlo. “Forse sono scarpe per donne con un dito solo. Scarpe ortopediche.” Rise del proprio commento, ma la signorina Makutsi non la imitò. (…) “Naturalmente, è bene tener presente che, se abbiamo piedi di forma tradizionale, ci conviene restare fedeli alle scarpe di forma tradizionale”. Nonostante il frastuono che le circondava, per un attimo ci fu un silenzio agghiacciante. La signorina Makutsi lanciò un’ occhiata ai piedi della signora Ramotswe. Vide le scarpe piatte e larghe, con le loro solide fibbie, molto simili alle scarpe che la signora Potokwane indossava all’orfanotrofio (anche se forse non così malridotte).

SCARPE AZZURRE PER ESSERE FELICI (continua…)

Poi si guardò i piedi. No, non c’era possibilità di confronto, e in quel momento decise che doveva avere le scarpe azzurre. Doveva averle, stop. Entrarono, la signorina Makutsi davanti, e la signora Ramotswe che la seguiva passivamente. Durante la conseguente transazione, la signora Ramotswe tacque. Osservò la signorina Makutsi indicare la vetrina. Osservò la commessa prendere una scatola da uno scaffale e tirar fuori un paio di quelle scarpe azzurre. Non disse nulla mentre la signorina Makutsi, seduta su uno sgabello, strizzava il piede in una delle scarpe, incoraggiata dalla commessa che spingeva e strattonava il suo piede con grande energia. E restò in silenzio mentre la signorina Makutsi prendeva il borsellino e pagava un anticipo perché le tenessero da parte le scarpe; la vide posare sul bancone quei preziosi biglietti della Banca del Botswana che si era faticosamente guadagnata (…)

Uscendo dal negozio, la signora Ramotswe si fece perdonare dicendo alla signorina Makutsi che in realtà anche lei trovava magnifiche le scarpe azzurre. Non aveva senso continuare a criticare un acquisto una volta avvenuto (…) in seguito fece notare alla signorina Makutsi che non indossava le nuove scarpe azzurre. Le lasciava riposare un po’? (…) La signorina Makutsi sorrise. Era imbarazzata, ma nell’intimità del camion (…) sentì che poteva esprimersi liberamente sull’argomento scarpe. “Mi stanno un po’ piccole – confessò – Credo che avesse ragione lei. Ma ero veramente felice quando le ho messe, e non me lo dimenticherò mai. Sono talmente belle.” La signora Ramotswe rise. “Be’, l’importante è questo, giusto? Conoscere la felicità, e poi ricordarla.” (Alexander McCall Smith, Scarpe azzurre e felicità, Parma, Guanda, 2008, pp. 177- 235).

la visione di Emma Blau

TACCHI SOLIDI O A SPILLO?

Helene è la terza moglie di Stefan Blau partito alla volta dell’America da una cittadina sul Reno e diventato proprietario di un ristorante nel New Hampshire. Cercando di bilanciarsi tra le due culture Helene si prende cura, non senza difficoltà, di Stefan e dei suoi figli . “Per Helene vivere in America era una altalena continua di scoperte e perdite. (…) Decise che le scarpe americane non erano abbastanza robuste e , anche se la fabbrica principale della cittadina era un calzaturificio che spediva merce in tutto il paese, lei ordinava le scarpe per la famiglia in Germania” mentre la sua amica americana Pearl con gusti decisamente diversi predilige i tacchi a spillo e non condivide la sua austerità: “Dolcezza le mie scarpe non sono fatte… per camminare sulla neve”. “Io mi romperei il collo.

La mia figliastra però, le adorerebbe. Non le piace portare le scarpe che ordino in Germania”. Pearl contemplò i piedi di Helene: pelle nera e solida, allacciata alle caviglie. Tacchi grossi. “Tu sei una donna molto indipendente” le disse. Quando dopo molti anni Helene si trova a ripensare alle sue scelte in fatto di calzature si rende conto di avere sbagliato e di aver impedito sia a Grete che a se stessa dei momenti di felicità fuori dalle regole. “ Helene si sdraiò sul letto, tenendo le scarpe ai piedi, anzi guardando il cuoio robusto delle scarpe, lì in fondo alle gambe, i lacci che si infilavano su cinque coppie di buchi, le piccole cuciture ad arco sulla punta, e pensò alle scarpe che piacevano a Yvonne – fasce sottili e tacchi a spillo – e desiderò averne posseduto un paio. (Ursula Hegi, La visione di Emma Blau, Milano, Feltrinelli, pp. 104-337).

Scarpe italiane

Scarpe italiane

SCARPE ITALIANE

Il maestro del giallo scandinavo, famoso per le storie sul commissario Wallander, ha scritto anche un libro intimista sui sentimenti che ha come protagonista Fredrik Welin, ex chirurgo, che vive in solitudine in una piccolissima isola circondata dai ghiacci. Improvvisamente incontra la sconosciuta figlia Louise:  ”la porta si aprì (..) Ne uscì una donna. Indossava un accappatoio rosa e scarpe con i tacchi alti (..) cercava di tenersi in equilibrio sulla neve”. Louise vive in modo non convenzionale, abita in una roulotte nella foresta, ma non rinuncia ad eleganti decolleté firmate, che indossa nel bosco: “non ci sono molte persone che hanno il coraggio di vivere in questo modo” dice di lei la madre Harriet.

Per festeggiare l’incontro con il padre, Louise lo porta da un calzolaio italiano “voglio che faccia un paio di scarpe per te” , servirà un anno, saranno nere con una sfumatura viola, “le buone scarpe devono far si che le persone dimentichino i propri piedi. Nessuno attraversa la vita su un tavolo o un pezzo di carta” dice il calzolaio. ( Henning Mankel, Scarpe italiane, Venezia, Marsilio, 2011)

Confessioni di una vittima dello shopping

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

“I tacchi alti sono l’esatto contrario dei geta. Mettiamoli a confronto e dimmi se i geta non sono obiettivamente inferiori. (..) Dite quello che volete, non solo i geta hanno un aspetto rozzo, ma è proprio difficile camminarci, ti costringono a trascinare umilmente i piedi. Con i tacchi alti succede l’opposto. Il piede è arcuato, non appiattito, così che la ragazza che li porta sembra camminare sull’aria, come una dea, come una fata. La prima volta che ho infilato i piedi un paio di scarpe con i tacchi alti come si deve, non si trattava di un marchio italiano, bensì francese: Louis Vuitton. Non sapevo un granché, di scarpe straniere. Ma il negozio era lo stesso dove avevo comprato la borsa. Quando le calzai mi sentii strana, diversa. Come se adesso appartenessi al cielo. Era così bello che non volevo più togliermele. Mai più. Avendo notato l’espressione sul mio volto la commessa suggerì : Le vecchie scarpe le metto nella scatola, così queste può tenerle ai piedi? Per l’emozione non riuscii neppure a risponderle. Ma a buona intenditrice poche parole, sicché uscii dal negozio che mi sentivo un’altra. Guardavo la mia ombra strabiliata.

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA (continua…)

Chi era quella tipa, con le gambe così lunghe? Mi venne in mente che adesso avevo proprio l’aspetto che dovevo avere, che finalmente ero come Dio aveva sempre voluto che fossi. Il dolore arrivò dopo, quando mi tosi le scarpe. I polpacci mi bruciavano e sentivo come degli aghi infuocati far su e giù per le mie gambe. Le dita dei piedi non le sentivo più; e se cercavo di muoverle loro non cooperavano. La cosa peggiore in assoluto era che le piante dei miei piedi dovevano evidentemente aver camminato sui carboni ardenti, a mia insaputa. Ma ciononostante io giravo per la cucina, intenta a preparare la cena per i bambini, sentendomi meravigliosa: come se portassi ancora i tacchi, divorata da mille occhi pieni di ammirazione. Il dolore era soltanto l’altra faccia della medaglia, ovvero della felicità che provavo.

E lì, dentro la mia casetta in disordine e che odorava di pesce, mi sentivo felice come non lo ero mai stata. Mi resi conto che il dolore può essere cosa buona, quando attraverso di esso riesci a rivivere intensamente una data esperienza. E poi il dolore cancellava il senso di colpa che avrei dovuto provare per essere stata una cattiva ragazza, per aver pensato solo a me stessa e aver speso i soldi che avrei dovuto tenere in serbo per i miei cari. La mattina dopo il dolore era svanito e io ero pronta a comportarmi male un’altra volta.”  (Radhika Jha, Confessioni di una vittima dello shopping, Palermo, Sellerio, 2014, pp. 51,52)

Brothel Creepers

LE MIE MERAVIGLIOSE BROTHEL CREEPERS

“A diciassette anni, quando comprai da Shellys le mie prime Brothel Creepers, avevo la certezza assoluta che non le avrei mai messe con le calze. (…) I senza calze sono senza-dio. Così le Brothel Creepers, altrimenti note come scarpe da Teddy-boys. Camminare per strada con il mio primissimo paio di Brothel Creepers ai piedi mi faceva sentire come se avessi avuto un tatuaggio che mi predestinava ad una vita ricca di significato. Non proprio a punta come le Winkle-pickers, le mie Brothel Creepers avevano una linguetta a v in pelle di leopardo, circondata da cinque centimetri di spessa suola di gomma nera. Infilarci il piede nudo era come camminare su una nuvola, letteralmente. Le mie Brothel Creepers erano belle e vere, la genialità in persona, e non mi importava che fossero anche rook e pop – non era quello il punto. Erano la metropoli, un biglietto per andarmene dalla periferia, un’uscita di sicurezza da tutto ciò che ci si aspetta da noi donne.

LE MIE MERAVIGLIOSE BROTHEL CREEPERS (continua)

C’era qualcosa nella linea delle Brothel Creepers che metteva il mondo in una prospettiva assolutamente nuova. L’accostamento di Brothel Creepers e caviglie nude mi faceva sentire sexy, seria, frivola, sicura. Le portavo con abitini neri aderenti, o con i jeans. Con gonne a tubo o con pantaloni gessati. Mi era semplicemente impossibile non portarle sempre. La loro sottile punta nera batteva al ritmo della ribellione: erano scarpe che mia madre non avrebbe mai portato, scarpe che mio padre non avrebbe mai portato, scarpe che non molte ragazze osavano portare, ma quelle poche erano sicuramente splendide. (…) Da allora ne ho comprato molti altri modelli, ma a distanza di vent’anni quel primo paio si trova ancora intatto, sul primo ripiano della mia scarpiera: come i musicisti jazz, le Brothel Creepers migliorano con l’età, perché hanno una sorta di grazia intramontabile anche nella bruttezza. Lo spirito delle Brothel Creepers  mi accompagnerà fino al giorno della morte. Quelle scarpe mi parlano della mia vita prima di diventare madre (…). Le mettevo per scrivere i miei romanzi, per insegnare, anche per andare a Roma a sposarmi e poi scappare all’ultimo momento. Le mie meravigliose Brothel Creepers mi ricordano che invecchiare significa diventare come la gente di cui un tempo ci si burlava. Adesso, a volte, metto le calze. (Deborah Levy, Le mie meravigliose Brothel Creepers, in K. Dunseath (a cura di) 33 scrittrici raccontano. Seconda pelle, Milano, Feltrinelli, 2001, pp. 17-20)

SCARPE CHE FANNO SOFFRIRE

”E poi c’erano le scarpe ortopediche. Avendo i piedi piatti, dovevo indossare calzature correttive speciali – e anche queste non erano calzature normali, ma orribili prodotti socialisti, di spessa pelle gialla, che arrivavano fino alle caviglie. E non bastava che fossero brutte e pesanti: mia madre andò dal calzolaio e gli fece applicare due pezzi di metallo alle suole – come gli zoccoli di un cavallo – per evitare che si consumassero troppo in fretta. Così quando camminavo facevo clop clop. Mi sentivano ovunque con quelle scarpe. Avevo paura anche solo a camminare per strada. Se c’era qualcuno alle mie spalle mi fermavo in un androne per farlo passare, tanto mi vergognavo” (p.359 ebook). Marina Abramović, Attraversare i muri. Un’autobiografia, Milano Bompiani, 2018

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By Paola Pizza, 11 Gennaio 2015 Psicologa, iscritta all'Ordine degli Psicologi della Toscana, dal 1992 si occupa di psicologia della moda. È autrice di diversi libri sulla psicologia della moda. È coordinatrice didattica del Master on line in Psicologia della moda e dell'immagine di ESR Italia.È stata professore a contratto di Psicologia Sociale e Teoria e tecniche del colloquio psicologico alla Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Firenze, e di Psicologia sociale della moda e di Psicologia dei consumi di moda al Polimoda.

Paola Pizza

Psicologa, iscritta all'Ordine degli Psicologi della Toscana, dal 1992 si occupa di psicologia della moda. È autrice di diversi libri sulla psicologia della moda. È coordinatrice didattica del Master on line in Psicologia della moda e dell'immagine di ESR Italia.È stata professore a contratto di Psicologia Sociale e Teoria e tecniche del colloquio psicologico alla Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Firenze, e di Psicologia sociale della moda e di Psicologia dei consumi di moda al Polimoda.

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Paola Pizz

Ciao, sono Paola Pizza, psicologa della moda.
Nel lavoro ho unito due grandi passioni: la psicologia e la moda.
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